lunedì 3 febbraio 2014

Sulla giornata della memoria



Innescate dal pamphlet di Elena Loewenthal "Contro il giorno della memoria" (qui una recensione di David Bidussa), quest'anno la ricorrenza del 27 gennaio è stata al centro di discussioni. Portando diverse argomentazioni (qui un repertorio delle posizioni), voci autorevoli hanno invitato a ripensare questa giornata, ormai entrata nel calendario pubblico e nelle routines programmatorie di diverse agenzie di socializzazione (scuole, biblioteche, mass media...).
L'invito è di uscire dalle gabbie di una celebrazione rituale, che finisce per perpetrare un'immagine del passato oleografica, che  non chiama in causa il presente e svolge una funzione tutto sommato consolatoria. Del resto già Primo Levi nella prefazione a "I sommersi e i salvati" scriveva:
"Non è detto che le cerimonie e le celebrazioni, i monumenti e le bandiere, siano sempre e dappertutto da deplorare. Una certa dose di retorica è forse indispensabile affinchè il ricordo duri. Che i sepolcri, "l'urne de' forti", accendano gli animi a egregie cose, o almeno conservino memoria delle imprese compiute, era vero ai tempi di Foscolo ed è vero ancor oggi; ma bisogna stare in guardia dalle semplificazioni eccessive." 

Tra le voci più equilibrate quella di Anna Foa - una storica attenta al dispiegarsi delle esistenze personali nelle pieghe degli eventi storici, vedi il suo ultimo libro Portico d'Ottavia 13 - che in un'intervista a Repubblica dice:
"Bisognerebbe trovare una chiave per cambiarne le caratteristiche. Anche aprendosi agli altri genocidi del Novecento, cosa che non è sempre ben vista all'interno del mondo ebraico: si teme la banalizzazione della Shoah. Quanto al 27, mio padre Vittorio diceva che non bisognava ricordare un giorno solo".

Ecco, un esempio che va nella direzione indicata - e che ci riguarda da molto vicino - viene dagli insegnanti di storia del Canton Ticino, che in occasione del giorno della memoria hanno organizzato un ciclo di incontri su "Genocidi, violenza e speranza in Africa". Hanno chiamato relatori di ottimo livello, come il decano degli storici italiani sull'Africa Gianpaolo Calchi Novati, l'ex bambino-soldato John Baptist Onama (docente alla Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Padova), Lucilla Bertoli cooperante per COOPI nella Repubblica Centroafricana (dove il conflitto armato tra la popolazione cristiana e musulmana ha prodotto intollerabili livelli di violenza e disgregazione sociale, con l'uso massiccio di bambini combattenti).
E poi hanno invitato anche noi. Già. A parlare de La rosa sepolta con i ragazzi dell'ultimo anno - un'esposizione delle tavole del fumetto è stata allestita nell'atrio del liceo.
Domani quindi, con grande piacere, siamo a Lugano. Con le orecchie pronte all'ascolto.
Tra le cose che diremo c'è questa semplice verità. I bambini-soldato come Sergio sono vittime e carnefici allo stesso tempo. Vittime di un sistema di violenza e oppressione che li ha sradicati dal loro posto caldo nel mondo, dalle loro famiglie e dalle loro case; carnefici di offese efferate e umanamente insostenibili nei confronti di chi è più debole di loro e quindi alla mercè di una violenza senza consapevolezza. Questa ambivalenza rende la loro condizione atroce, perchè tormentatore e tormentato convivono in loro. E come diceva sempre Primo Levi:
"l'offesa è insanabile: si protrae nel tempo, e le Erinni, a cui bisogna pur credere, non travagliano solo il tormentatore (se pure lo travagliano, aiutate o no dalla punizione umana), ma perpetuano l'opera di questo negando la pace al tormentato."
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